Diffamazione: attenzione perché costituisce reato offendere la memoria di un defunto definendolo come “infame”
Questione
La diffamazione costituisce reato ed è punita dall’articolo 595 del codice penale: Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.
Tra le molte offese che si possono rivolgere ad una persona e che costituiscono reato, si può sicuramente menzionare la parola “infame”, anche se rivolta a una persona deceduta, così infangandone la memoria.
La sentenza
Con sentenza n. 319 del 14/10/2021 la Suprema Corte di Cassazione, sez. V penale, ha stabilito che: costituisce diffamazione e sono superati i limiti del diritto di critica se le espressioni utilizzate sono offensive e negative per l’onore e la memoria del destinatario
In tema di diffamazione, devono ritenersi superati i limiti del diritto di critica quando le espressioni utilizzate, per quanto inserite in un contesto di rievocazione storica, siano offensive e dotate di carica negativa per l’onore e la memoria del destinatario (nella specie, si è ritenuta non scriminata l’attribuzione della qualifica di ‘infame’ alla deceduta persona offesa, per effetto dell’attribuzione di rapporti torbidi con i servizi segreti italiani, finalizzati ad obiettivi non meglio chiariti).
Tale condotta, per quanto inserita in un contesto di rievocazione storica connotato indubitabilmente da pieghe ancora oggi oscure, non può ritenersi priva di offensività o di carica negativa per l’onore (e la memoria) di colui al quale viene ascritta l’aggettivazione, peraltro caratterizzata, di per sé, da una valenza spregiativa per pacifico significato lessicale.
Quanto alla sussistenza dell’ipotesi di provocazione, pure invocata nel ricorso, alla luce del contenuto complessivo dell’intervista, che si apre con un titolo che rivolgeva allo stesso ricorrente l’attribuzione di disprezzo integrata dalla qualità di “infame”, il Collegio rileva la sua manifesta infondatezza, per la palese incoerenza dell’accusa rivolta al ricorrente (il presunto “fatto ingiusto altrui”) con il comportamento di reazione, diretto alla diffamazione di una terza persona non coinvolta dall’intervistatore nel suo intervento di esordio