Mobbing sul lavoro: può essere stalking occupazionale

Il mobbing è un problema crescente in un universo lavorativo sempre più diversificato, ma anche profondamente cambiato dopo l’impatto pesante della pandemia

Le aziende in crisi, le necessità di far fronte a perdite economiche e a rimodulazioni degli spazi e personale in ragione delle norme emanate durante il periodo emergenziale ed ora, non ultima, la guerra nel cuore dell’Europa, ennesimo terremoto da dover interpretare e attutire nei suoi effetti immediati e a lungo termine.

Persecuzioni sul lavoro sempre più frequenti

Ma non sono solo le cause oggettive a dar luogo a situazioni difficili da fronteggiare sul luogo del lavoro. Non infrequente è il verificarsi di condizioni di sopraffazione o ingiustizia che rendono al lavoratore difficile, fin anche insopportabile, il regolare svolgimento del servizio. E’ il caso del mobbing ( parola derivante dal verbo inglese “to mob“, che significa accerchiare, assalire), ossia la pratica sistematica di un atteggiamento di persecuzione esercitata sul posto di lavoro da colleghi o superiori nei confronti di un individuo, consistente per lo più in piccoli atti quotidiani di emarginazione sociale, violenza psicologica o sabotaggio professionale, ma che può spingersi fino all’aggressione fisica.

Stalking occupazionale: di cosa si tratta

La Cassazione si è occupata di recente di trattare il tema, vagliando l’ipotesi che possa anche configurarsi come “stalking occupazionale”, emanando un orientamento giurisprudenziale secondo cui “integra il delitto di atti persecutori la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione e al suo isolamento nell’ambiente di lavoro – che ben possono essere rappresentati dall’abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi – tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima”.

Mobbing

La Corte prosegue “per la sussistenza del delitto di cui all’art. 612-bis c.p. è sufficiente il generico, con la conseguenza è che è richiesta la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, mentre non occorre che tali condotte siano dirette ad un fine specifico”.

Non giustificano i motivi di efficienza aziendale

Non può avere nessuno spazio la tesi difensiva delle pratiche finalizzate a “rendere più efficiente la società” definite come “condivise  dal Consiglio di Amministrazione”, atteso che “l’efficienza della società non può essere raggiunta attraverso la persecuzione e l’umiliazione dei dipendenti ed, in genere, mediante la commissione di delitti ai danni della persona, dovendo la tutela della persona – e, nel caso specifico, del lavoratore – in ogni caso prevalere sugli interessi economici”; e  che “la condivisione da parte degli altri componenti del Consiglio di Amministrazione potrebbe semmai comportare una condivisione da parte di tali soggetti della responsabilità penale e, giammai, l’assoluzione dell’imputato”.