Le vittime del reato di riduzione in schiavitù sono state sottoposte a riti voodoo (o juju) tanto da trovarsi in una condizione di soggezione che ha compromesso la loro capacità di autodeterminazione: così la Cassazione penale
Il reato di riduzione in schiavitù
L’art. 600 c.p. punisce con la reclusione da otto a venti anni “Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi”.
Il comma 2, precisa, poi, che la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.
Lo stato di soggezione psicologica
La Cassazione penale con sentenza n. 3796 del 2022 affronta il tema della configurabilità dello stato di soggezione nel caso di due nigeriane, entrate illegalmente in Italia e avviate alla prostituzione.
Le vittime erano state sottoposte in territorio nigeriano, a riti voodoo.
Per effetto di tali riti le stesse – secondo quanto appurato anche mediante approfondimenti di natura antropologica e psicologica – si vennero a trovare in una condizione di stringente ed ineludibile soggezione nei confronti dell’imputata.
Quest’ultima approfittò di tale soggezione per imporre loro il meretricio allo scopo di procurarsi le risorse finanziarie occorrenti per ripagare il debito contratto.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità dello stato di soggezione, rilevante per l’integrazione del reato di riduzione in schiavitù, è necessaria una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione della persona offesa, anche indipendentemente da una totale privazione della libertà personale.
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La tesi difensiva e le motivazioni nel merito
A fronte dell’obiezione difensiva, secondo cui l’intervento dello sciamano avrebbe prodotto un mero vincolo di natura contrattuale, che obbligava il soggetto al rispetto dell’obbligo di restituire una determinata somma di denaro ed al divieto di rivolgersi alle forze dell’ordine e di intrattenere rapporti sessuali con il marito della madame, la Corte di appello ha ribadito che il rito ha, invece, generato un vero e proprio rapporto di dominio fisico.
Nella parte motiva della sentenza si riportano le circostanze che hanno indotto il giudice di merito alla condanna, confermata in Cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso.
In particolare,
- “Il prelievo di materiale organico delle ragazze con il quale viene fatto un feticcio durante il rituale conferisce alla madame una posizione di dominio che viene percepita come minacciosa dalle ragazze in due modi: nella sfera fisica e in quella spirituale.
- La pratica di rimuovere parti del corpo e, applicare dei tagli sulle spalle, braccia e schiena crea una paura emotiva nelle ragazze, le quali percepiscono la minaccia di dolore fisico come reale.
- Inoltre, il fatto che la madame ed il native doctor possiedano parti del corpo delle ragazze gli conferisce il potere di controllo e ricatto spirituale tramite meccanismi metonimici”, ovvero in forza del principio secondo cui “avere il controllo su una parte della persona conferisce controllo sulla persona stessa”.
La medesima chiave di lettura ispira l’apporto della consulente, la quale ha spiegato che il rituale unge da “meccanismo coercitivo, da dispositivo di controllo a distanza (…) che viene imposto a donne in posizione di forte vulnerabilità” per cui, nonostante l’apparente libertà di movimento, lo strumento induce uno stato di “schiavitù mentale“.