Nessuna “cultura” giustifica la violazione della donna: infibulazione, matrimonio coatto, spose bambine da oggi il Diritto gridi forte il suo no!
Infibulazione: una pratica che viola la donna
Vi sono alcune aree geografiche del nostro pianeta ove ancora viene sostenuto da motivazioni socio-culturali tramandate nei millenni, il ricorso a pratiche di mutilazione genitale femminile. Le suddette condotte sono perlopiù caratterizzanti di alcuni gruppi etnici specifici, dislocati soprattutto nell’Africa sub sahariana (ma non solo), che pongono alla base di quelle che noi chiameremmo vere e proprie mutilazioni coatte, sentimenti di “onore familiare”, preservazione della verginità femminile e il garanzia di fedeltà matrimoniale, finanche giungendo a giustificarle con l’asserzione di motivi igienici. In realtà nascondono una terribile logica di prevaricazione maschile, ove la donna deve essere assicurata “sotto chiave” al proprio sposo, marito e capo in tutti i sensi della propria sposa e della propria famiglia.
Il corpo non è un oggetto da “aggiustare”
Il corpo non appartiene alla donna, che in quel momento non è un essere umano portatore dei suoi diritti fondamentali, ma unicamente un corpo che può essere usato/plasmato secondo i bisogni di una “cultura”, tradizione, popolazione o religione. Si tratta di trattamenti imposti il più delle volte alla persona, che quindi ne diviene vera e propria vittima, provocando sofferenze e tal volta gravi conseguenze sulla salute della donna che li subisce, fino ad arrivare alla conseguenza più estrema: la morte della stessa. Non è ardito che in tali casi si possa pertanto assimilare la condotta ad una tortura fisica su una vittima. Si tratta di una lesione dei diritti fondamentali della donna palese, che non può, per i motivi sopra indicati, essere consentita dal diritto in Italia. Si parla di diritti come: il diritto alla salute e all’integrità fisica, il diritto alla pari dignità sociale, il diritto alla non discriminazione fin anche a ledere il diritto alla vita, che con tali pratiche sono a rischio e che quindi vanno tutelati in maniera decisa.
La fattispecie di reato in Italia
In Italia, la mutilazione degli organi genitali femminili costituisce un reato previsto e punito dall’art. 583 bis c.p., introdotto dalla legge n. 7/2006. L’art. 583 bis c.p., prevede due diverse fattispecie incriminatrici: la mutilazione degli organi genitali femminili e le lesioni agli organi genitali femminili.
Ai sensi del 1° comma dell’art. 583 bis c.p., è previsto che “chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili è punito con la reclusione da 4 a 12 anni.” E si precisa che “si intendono come pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili la clitoridectomia, l’escissione e l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo”.
Al 2° comma, invece, il legislatore stabilisce che “chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da 3 a 7 anni”: La norma introduce, quindi, una diversa fattispecie, punita meno gravemente, in modo da non avere lacune di tutela nei confronti di tutte quelle pratiche che, pur non comportando una vera e proprio mutilazione, comportano comunque una lesione agli organi genitali femminili.
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La Cassazione ribadisce fortemente la condanna verso la pratica dell’infibulazione
La Corte di Cassazione con sentenza 14 ottobre 2021, n. 37422 si è pronunciata sul tema grazie ad un ricorso proposto in sede di legittimità, ove si sottoponeva ai supremi Giudici la questione di un genitore che sottoponeva i propri figli a pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili accettate dalla cultura radicata nel proprio paese d’origine.
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Dalla sentenza possiamo ricevere il seguente principio di diritto:
“Non è invocabile il principio della c.d. ignoranza inevitabile della legge, introdotto dalla Corte cost. con la sentenza n. 364/1988, da parte dello straniero extracomunitario che abbia sottoposto i propri figli a pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (reato previsto dall’art. 583-bis, c.p.), non potendosi tener conto dell’asserita sicura inferiorità dovuta alle condizioni soggettive, rappresentate dalla inadeguata conoscenza della lingua e della cultura italiana, dall’essere da poco tempo in Italia, conseguendone la scarsa integrazione nel contesto sociale italiano, dal basso livello di scolarizzazione anche nel proprio paese di origine, dalla mancata sanzionabilità delle pratiche di mutilazione genitale e dalla millenaria “cultura” di queste presente nel paese d’origine, avendole lei stessa subite”.