Malattia terminale: il malato ha diritto di decidere del “fine vita” e la mancata diagnosi deve essere risarcita
La Vita e la sua fine
In diverse occasioni la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato il tema dell’omessa diagnosi di malattia terminale.
Solitamente, sono i congiunti di un soggetto deceduto a causa dell’omessa diagnosi ad agire nei confronti del medico o della struttura sanitaria al fine di vedere riconosciuto il danno per la morte del congiunto, morte che in alcuni casi si poteva almeno ritardare.
Infatti, l’omessa diagnosi di una malattia terminale, può determinare per la persona malata la perdita di possibilità di sopravvivenza per giorni, settimane o mesi in più, tempo prezioso che il malato ha diritto di vivere come meglio crede.
Tale danno deve dunque essere risarcito.
La Cassazione
La Suprema Corte di Cassazione ha affrontato la questione con la sentenza n. 16919 del Cassazione 27/06/2018, stabilendo che: “Determina l’esistenza di un danno risarcibile alla persona la omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, ove risulti che, per effetto della omissione, sia andata perduta dal paziente la possibilità di sopravvivenza per alcune settimane o alcuni mesi, o comunque per un periodo limitato, in più rispetto al periodo temporale effettivamente vissuto”.
La vicenda riguarda il caso di un uomo che, recatosi presso il pronto soccorso dell’Ospedale per violenti dolori retrosternali, aveva ricevuto la diagnosi di semplice nevralgia, con rinvio a casa, ma che il giorno seguente, dopo che nella mattinata a seguito di esame elettrocardiografico gli era stato diagnosticato infarto acuto con prescrizione di ricovero d’urgenza, era deceduto appena rientrato a casa.
La Corte ha così argomentato: […] con riferimento al danno da perdita di chance, il quale presuppone in effetti una specifica domanda e non può ritenersi incluso nella generica istanza di risarcimento di tutti i danni subiti (Cass.29 novembre 2012 n. 21245).
La chance, in tale caso, rileva non come danno-conseguenza ai sensi dell’art.1223 c.c., ma come danno-evento.
Il punto di riferimento della causalità materiale è proprio l’evento perdita di chance in termini di perdita della possibilità di una vita più lunga da parte del paziente (cfr. Cass. 27 marzo 2014 n. 7195).
Il nesso di causalità materiale fra la condotta colposa e l’evento va quindi posto in relazione non con riferimento all’evento morte sic et simpliciter, ma con riferimento alla perdita del detto limitato periodo di sopravvivenza.
È rispetto a tale danno-evento che il giudice di merito deve valutare, sulla base della causalità giuridica ai sensi dell’art. 1223, quali conseguenze pregiudizievoli siano derivate dall’avere privato il danneggiato dalla possibilità di sopravvivere sia pure per un periodo limitato di vita.
Sotto altro punto di vista, come precisato da Cass. 19 marzo 2018 n. 6688, è lo stesso uso dell’espressione “chance”, con riferimento alla perdita della possibilità di sopravvivenza per un periodo imitato, a non apparire pertinente perché il danno non attiene al mancato conseguimento di qualcosa che il soggetto non ha mai avuto e dunque ad una possibilità protesa verso il futuro, cui allude la chance, ma alla perdita di qualcosa che il soggetto già aveva e di cui avrebbe certamente fruito ove non fosse intervenuta l’imperizia del sanitario.
Sempre a questo proposito ha precisato Cass. 9 marzo 2018 n. 5641 che: “qualora l’evento di danno sia costituito non da una possibilità – sinonimo di incertezza del risultato sperato – ma dal (mancato) risultato stesso (nel caso di specie, la perdita anticipata della vita), non è lecito discorrere di chance perduta, bensì di altro e diverso evento di danno, senza che l’equivoco lessicale costituito, in tal caso, dalla sua ricostruzione in termini di “possibilità” possa indurre a conclusioni diverse”.
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Sulla base di tale criterio la pronuncia in discorso ha quindi identificato la seguente ipotesi: “la condotta colpevole ha cagionato non la morte del paziente (che si sarebbe comunque verificata) bensì una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata.
In tal caso il sanitario sarà chiamato a rispondere dell’evento di danno costituito dalla minor durata della vita e dalla sua peggior qualità, senza che tale danno integri una fattispecie di perdita di chance – senza, cioè, che l’equivoco lessicale costituito dal sintagma “possibilità di un vita più lunga e di qualità migliore” incida sulla qualificazione dell’evento, caratterizzato non dalla “possibilità di un risultato migliore”, bensì dalla certezza (o rilevante probabilità) di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali”.[…]