La lettera di contestazione al dipendente “che sembra un clochard”: le offese possono costituire reato di diffamazione
Il caso
La lettera di contestazione al dipendente per una condotta tenuta da quest’ultimo non può certo contenere delle offese, ma in alcuni casi le offese possono addirittura costituire reato di diffamazione ex art. 595 c.p.
La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 33115 del 2020, si è occupata proprio di un caso di diffamazione mediante lettera di contestazione al dipendente.
Il caso riguarda l’invio di una lettera di contestazione in cui il dipendente viene definito come “clochard” in tono dispregiativo.
In particolare, mediante l’invio di una missiva alle sedi dell’ENEL di Palermo e di Roma, veniva offesa la credibilità e la reputazione del dipendente della sede ENEL che si era recato, su disposizione dell’ENEL, ad un sopralluogo tecnico presso edifici scolastici.
Veniva affermato nel corpo della missiva autografa che il dipendente, in occasione del sopralluogo, era sprovvisto di tesserino di riconoscimento e privo di idoneo abbigliamento che individuasse la ditta di appartenenza, perché dal vestiario usato e dalle sembianze sembrava più un clochard che un dipendente ENEL.
La massima
Con la sentenza 33115/21 La Suprema Corte si è espressa stabilendo che:
Integra il delitto di diffamazione l’invio di una lettera di contestazione in cui un dipendente venga qualificato come “clochard” in modo dispregiativo in relazione all’aspetto ritenuto trasandato, non potendo ritenersi configurabile l’esimente del diritto di critica, in quanto tale appellativo, pur in sé non offensivo, assume tale valenza ove venga utilizzato in maniera dispregiativa, con riferimento al vestiario ed alle sembianze, e con modalità del tutto gratuite ed eccentriche rispetto al contesto espressivo di riferimento.
Argomentazione
La corte così argomenta in sentenza: […] Peraltro, va sottolineato come il riferimento alla categoria dei clochard non sia da ritenersi offensivo in senso astratto, giacché in tale categoria rientrano le persone senzatetto, senza casa o senza fissa dimora, per le quali – come è noto – è usata a volte la parola francese clochard, altre volte quella inglese homeless e altre ancora quella italiana di barboni.
Va detto, tuttavia, che le persone rientranti nella suddetta categoria sono spessissimo oggetto di gratuito e anacronistico disprezzo sociale, scaturente da una cultura caratterizzata da aporofobia ovvero da odio, repulsione e, in molti casi, violenta ostilità di fronte ai soggetti che vivono in stato di indigenza.
È del tutto evidente, allora, che nella specie il F. abbia utilizzato il suddetto termine solo per disprezzare il Fa., riferendolo gratuitamente al suo abbigliamento e, addirittura, alle sue “sembianze”.
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Insomma, dal contesto della missiva in cui è contenuta l’espressione offensiva riferita al Fa. è palese la carica dispregiativa che il F. ha attribuito al termine clochard; e ciò è sufficiente a configurare anche l’elemento soggettivo del reato ascritto, dovendo peraltro ribadirsi in proposito che, in tema di diffamazione, è sufficiente il dolo generico (che può anche assumere la forma del dolo eventuale), il quale comunque implica l’uso consapevole, da parte dell’agente, di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive (Sez. 5, n. 8419 del 16/10/2013, Verratti, Rv. 25894301; Sez. 5, n. 4364 del 12/12/2012, Arcadi, Rv. 25439001; Sez. 5, n. 7597 del 11/05/1999, Beri Riboli E., Rv. 21363101).
Va quindi conclusivamente affermato che, sebbene l’attribuzione della qualità di clochard a un soggetto non sia offensiva in via astratta, è configurabile il reato di diffamazione nella condotta di chi utilizza tale termine in maniera dispregiativa e con modalità del tutto gratuite ed eccentriche rispetto al contesto espressivo di riferimento. […]