Sì al risarcimento alla presunta vittima di stupro se la sentenza non rispetta la sua intimità

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sez. I, 27/05/2021, n.5671 ha stabilito il risarcimento per la presunta vittima di stupro in quanto la sentenza nazionale in diversi passaggi ha violato l’art. 8 della Convenzione.

Il caso sottoposto alla Corte Europea

La ricorrente ha lamentato che nell’ambito del procedimento penale in seguito ad una denuncia per violenza sessuale di gruppo da lei presentata non è stato rispettato l’obbligo positivo che incombeva sulle autorità nazionali :

  • di proteggerla in maniera effettiva dalle violenze sessuali che afferma di avere subìto e
  • di garantire la protezione del suo diritto alla vita privata e della sua integrità personale.
    Ciò avrebbe costituito una violazione degli articoli 8 e 14 della Convenzione.

L’ambito dell’intervento della Corte

La Corte riconoscendo la esistenza nell’ordinamento italiano di un quadro normativo di protezione dei diritti delle vittime di violenze sessuali, ha ritenuto di avere come limite quello di determinare se la ricorrente abbia beneficiato di una protezione effettiva dei suoi diritti di vittima presunta, e se il meccanismo previsto dal diritto penale italiano, nel caso di specie, sia stato lacunoso a tal punto da comportare una violazione degli obblighi positivi che incombevano allo Stato convenuto.

La Corte ha ritenuto di dover stabilire se le autorità interne siano riuscite a garantire un giusto equilibrio tra gli interessi della difesa, soprattutto il diritto degli imputati di far citare e di interrogare i testimoni di cui all’articolo 6 § 3, e i diritti riconosciuti alla vittima presunta dall’articolo 8.

Il modo in cui la vittima presunta di reati di natura sessuale viene interrogata deve permettere di garantire un giusto equilibrio tra l’integrità personale e la dignità di quest’ultima e i diritti della difesa garantiti agli imputati.

risarcimento alla vittima di stupro

L’analisi delle decisioni giudiziarie da parte della Corte

La Corte Europea ha richiamato tra l’altro quanto previsto dal codice etico dei magistrati che all’art. 12 , terzo comma prevede: “ Nelle motivazioni dei provvedimenti e nella conduzione dell’udienza [il giudice] esamina i fatti e gli argomenti prospettati dalle parti, evita di pronunciarsi su fatti o persone estranei all’oggetto della causa, di emettere giudizi o valutazioni sulla capacità professionale di altri magistrati o dei difensori, ovvero – quando non siano indispensabili ai fini della decisione – sui soggetti coinvolti nel processo.
La Corte ha valutato se il contenuto delle decisioni giudiziarie adottate nell’ambito del processo della ricorrente e il ragionamento su cui si è fondata l’assoluzione degli imputati abbiano leso il diritto dell’interessata al rispetto della sua vita privata e alla sua libertà sessuale e se l’abbiano esposta a una vittimizzazione secondaria.

Le argomentazioni della Corte

La Corte ha rilevato che diversi passaggi della sentenza della corte d’appello competente nel caso evocano la vita personale e intima della ricorrente e che ledono i diritti di quest’ultima derivanti dall’articolo 8.

In particolare, la Corte ha considerato ingiustificati i riferimenti fatti dalla corte d’appello alla biancheria intima rossa “mostrata” dalla ricorrente nel corso della serata, nonché i commenti concernenti la bisessualità dell’interessata, le relazioni sentimentali e i rapporti sessuali occasionali di quest’ultima prima dei fatti .

Inoltre, la Corte ha ritenuto che il giudizio sulla decisione della ricorrente di denunciare i fatti, che secondo la corte d’appello sarebbe risultato da una volontà di «stigmatizzare» e di rimuovere un «momento criticabile di fragilità e di debolezza», così come il riferimento alla «vita non lineare» dell’interessata (ibidem), siano ugualmente deplorevoli e fuori luogo.

La Corte non ha considerato la condizione familiare della ricorrente, le sue relazioni sentimentali, i suoi orientamenti sessuali o ancora le sue scelte di abbigliamento nonché l’oggetto delle sue attività artistiche e culturali pertinenti per la valutazione della credibilità dell’interessata e della responsabilità penale degli imputati.

Pertanto, non si può ritenere che le suddette violazioni della vita privata e dell’immagine della ricorrente fossero giustificate dalla necessità di garantire i diritti della difesa degli imputati.

Gli obblighi positivi di protezione

La Corte ha ritenuto che gli obblighi positivi di proteggere le presunte vittime di violenza di genere impongano anche il dovere di proteggere l’immagine, la dignità e la vita privata di queste ultime, anche attraverso la non divulgazione di informazioni e dati personali senza alcun rapporto con i fatti.

Questo obbligo è, peraltro, inerente alla funzione giudiziaria e deriva dal diritto nazionale nonché da vari testi internazionali.

In tal senso, la facoltà per i giudici di esprimersi liberamente nelle decisioni, che è una manifestazione del potere discrezionale dei magistrati e del principio dell’indipendenza della giustizia, è limitata dall’obbligo di proteggere l’immagine e la vita privata dei singoli da ogni violazione ingiustificata.

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I pregiudizi sul ruolo della donna nella società italiana

La Corte ha osservato che il settimo rapporto sull’Italia del Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne e il rapporto del GREVIO, hanno constatato il persistere di stereotipi riguardanti il ruolo delle donne e la resistenza della società italiana alla causa della parità dei sessi.
La Corte ha ritenuto che il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla corte d’appello veicolino i pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare una protezione effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente.

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Le conclusioni

La Corte ha considerato essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie, di minimizzare la violenza di genere e di esporre le donne a una vittimizzazione secondaria utilizzando affermazioni colpevolizzanti e moralizzatrici atte a scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia.

Pur riconoscendo che le autorità nazionali hanno vigilato nel caso di specie affinché l’inchiesta e il dibattimento fossero condotti nel rispetto degli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8 della Convenzione, la Corte ha concluso che i diritti e gli interessi della ricorrente derivanti dall’articolo 8 non siano stati adeguatamente protetti alla luce del contenuto della sentenza della corte d’appello .

Ne consegue che le autorità nazionali non hanno protetto la ricorrente da una vittimizzazione secondaria durante tutto il procedimento, di cui la redazione della sentenza costituisce una parte integrante della massima importanza tenuto conto, in particolare, del suo carattere pubblico.
Sulla base di tutte le considerazioni espresse la Corte di Strasburgo ha riconosciuto alla ricorrente un risarcimento per danni morali di 12mila euro condannando l’Italia per aver violato i suoi diritti quale presunta vittima.