Il dipendente pubblico risponde del danno erariale

Se il dipendente pubblico commette un illecito nell’esercizio della propria attività lavorativa risponde verso lo Stato di danno erariale

Il dipendente pubblico che cagiona allo Stato un danno derivante dalla propria attività lavorativa è sottoposto a quello che viene chiamato giudizio contabile. La responsabilità derivante da tali illeciti si affianca alla eventuale responsabilità penale o civile di colui che abbia commesso il fatto oppure che abbia omesso un atto del proprio ufficio per il quale l’Amministrazione sia stata costretta a risarcire il danno occorso oppure per il quale la medesima abbia subito un danno economico.

La Corte dei Conti si occupa di tutti i procedimenti di tale natura ed il procedimento postula la presenza di un Pubblico Ministero quale organo deputato a difendere gli interessi e far proprie le richieste dell’amministrazione.

Per quanto concerne il danno erariale, la Legge 14 gennaio 1994, n. 20, recante disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei Conti, delimita i confini dell’azione di responsabilità e, all’art. 1, dispone: “La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali” e, all’art. 2, precisa: “Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta.”

È necessaria, quindi, almeno la colpa grave ai fini della responsabilità erariale del dipendente, non essendo rilevanti i comportamenti posti in essere con colpa lieve

Il concetto di colpa grave va inquadrato nella nozione di colpa professionale di cui all’art. 1176, II comma, c.c. e va inteso come osservanza non già della normale diligenza del “bonus pater familias”, bensì di quella particolare diligenza occorrente con riguardo alla natura e alle caratteristiche di una specifica attività esercitata.

Perché si abbia colpa grave non è richiesto, perciò, che si sia tenuto un comportamento assolutamente abnorme, ma è sufficiente che l’agente abbia omesso di attivarsi come si attiverebbe, nelle stesse situazioni, anche il meno provveduto degli esercenti quella determinata attività. In altri termini, è ritenuto sufficiente, per la sussistenza del suindicato grado di colpa, che nella fattispecie l’agente abbia serbato comunque un comportamento contrario a regole deontologiche elementari.