Se sullo Stato di WhatsApp si pubblica un’offesa contro una persona si configura la diffamazione
Pubblicazione di contenuto offensivo sullo stato di WhatsApp.
E’ stata ritenuta la responsabilità dell’imputato per il reato di diffamazione commesso pubblicando sul proprio “stato” di WhatsApp contenuti lesivi della reputazione di una donna.
La Cassazione penale, sez. V, 1° luglio 2021, n. 33219, ha dichiarato inammissibile il ricorso per Cassazione proposto dall’imputato, condannato nei precedenti due gradi di giudizio per diffamazione per aver pubblicato sullo stato di WhatsApp espressioni diffamatorie rivolte ad una persona.
Nella premessa si dà per certa la riferibilità alla persona offesa delle espressioni diffamatorie.
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Il motivo di ricorso tendente a lamentare l’assenza di prova della diffusività.
In particolare, tale deduzione si basa sulla mancata dimostrazione che i contatti della rubrica disponessero dell’applicazione e quindi potessero visionare lo stato di WhatsApp. La Corte ha dichiarato il motivo inammissibile per novità.
La Cassazione dunque, specifica che il motivo muoveva dal contrario presupposto di fatto ossia che l’imputato non avesse limitato la visione.
Infatti se così fosse stato non avrebbe avuto senso pubblicare la espressione diffamatoria sullo stato, ma inviare semplicemente un messaggio individuale.
Pertanto la pubblicazione di espressioni di contenuto lesivo della reputazione di una persona pubblicati sullo stato di WhatsApp configurano la diffamazione, considerato che i contatti visualizzano lo stato.
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Elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione
La Cassazione, con sentenza n. 10905 del 2020, ha avuto modo di ribadire che l’elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è costituito dal fatto che:
- nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso
- nella diffamazione l’offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore (Sez. 5, n. 10313 del 17/01/2019).
Nel caso affrontato la Suprema Corte ha stabilito che non costituisce reato di diffamazione rivolgere insulti attraverso una chat vocale sulla piattaforma Google Hangouts poiché destinatario del messaggio è unicamente la persona offesa.