Se cessa la convivenza con la vittima non cessa l’accusa per maltrattamenti in famiglia. Lo dice la Cassazione intervenendo su maltrattamenti o stalking
Antefatto giudiziale
La Corte di Appello aveva confermato la sentenza di primo grado con cui il giudice ha ritenuto responsabile l’imputato accusato di maltrattamenti familiari commesso ai danni della convivente, con l’aggravante di averli commessi alla presenza delle due figlie minori. Pertanto il ricorrente decide di proporre le proprie doglianze in cassazione.
Viene argomentata così la proposizione del ricorso su quattro motivi:
- Con il primo contesta il reato di maltrattamenti per le condotte tenute dal 1991 fino alla primavera del 2015 perché nel 2008 la convivenza con la persona offesasarebbe cessata. Da quel momento quindi sarebbe ravvisabile piuttosto il reato di atti persecutori perché in assenza di convivenza nell’abitazione famigliare di fatto non sarebbe ravvisabile alcun nucleo famigliare come descritto dalla fattispecie. A suo avviso, conclusa la convivenza nel 2008 e la relativa condotta di maltrattamenti, detto reato ad oggi deve considerarsi estinto.
- Con il secondo contesta la mancata assunzione della testimonianza a discarico di una figlia della coppia, rigettata dalla Corte che motiva la scelta con la raggiunta certezza probatoria sulla base del materiale raccolto.
- Con il terzo ritiene viziata la motivazione circa l’attendibilità della persona offesaatteso che mancherebbe la documentazione medica comprovante le lesioni e asserita l’incongruità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e alcune affermazioni che risulterebbero a discarico rese dalla Dott.ssa dei Servizi sociali sull’assenza di comportamenti maltrattanti riconducibili all’imputato.
- Con il quarto contesta poi la riconducibilità dei messaggi dal contenuto estorsivo attribuiti all’imputato, rientranti nel reato di minaccia, non procedibile per l’assenza della querela
La decisione della Suprema Corte
La Cassazione rigetta il ricorso ritenuto infondato in riferimento a tutte le doglianze sollevate.
In relazione al primo motivo di ricorso la Cassazione pone l’accento prima di tutto la differenza tra il reato di maltrattamenti familiari (art. 572 c.p) e quello di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) nei seguenti termini:
“II reato di maltrattamenti, spiega la Corte, è un reato contro la famiglia (segnatamente contro l’assistenza familiare) ed il bene giuridico protetto è costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dell’interesse delle persone alla difesa della propria incolumità fisica e psichica. L’ambito applicativo dell’incriminazione pertanto dipende dall’estensione di rapporti basati sui vincoli familiari, “intendendosi per famiglia ogni gruppo di persone tra le quali, per le strette relazioni e consuetudini di vita, si siano instaurati rapporti di assistenza e solidarietà reciproche, senza la necessità della convivenza o di una stabile coabitazione“. Al di là della lettera della norma incriminatrice («chiunque») il reato di maltrattamenti familiari dunque è un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “autorità” o peculiare “affidamento” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’articolo 572 cod. pen. (organismi di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, professione o arte), in danno di un soggetto che faccia parte di tali aggregazioni familiari o assimilate. ”
“Il reato di atti persecutori è invece un reato contro la persona, e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia “reiterati” (integrando appunto un reato abituale) e che non presuppone l’esistenza di relazioni interpersonali specifiche.” Il delitto di atti persecutori è invece aggravato se la convivenza di fatto è cessata e se i partner abbiano interrotto qualunque rapporto in modo che non si può più parlare in senso formale o informale di “famiglia.”
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La Suprema Corte afferma inoltre quanto segue: “le condotte vessatorie realizzate in caso di cessazione della convivenza con la vittima, sia nel caso di separazione legale o di divorzio, sia nel caso di interruzione della convivenza allorché si tratti di relazione di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non anche quello di atti persecutori, allorché i vincoli di solidarietà derivanti dal precedente rapporto intercorso tra le parti non più conviventi, nascenti dal coniugio, dalla relazione more uxorio o dalla filiazione, permangano integri o comunque solidi ed abituali nonostante il venir meno della convivenza“.
Inammissibile il secondo motivo di doglianza in quanto la Corte di Appello in quanto in tale sede è prevista una rinnovazione probatoria solo in caso di insufficienza del corredo probatorio disponibile.
Inammissibile anche il terzo motivo, visto che le dichiarazioni della persona offesa possono essere poste da sole a fondamento della affermazione della penale responsabilità dell’imputato se la stessa risulta credibile e attendibile.
Infine inammissibile anche il quarto motivo di ricorso, in quanto i giudici di merito hanno argomentato esaustivamente le ragioni per le quali le richieste estorsive sono riconducibili all’imputato.