Obbligare qualcuno a salire in macchina è violenza privata

Far salire forzatamente qualcuno nella propria auto può costituire violenza o sequestro di persona. La Cassazione chiarisce la differenza

I fatti

L’imputato avrebbe costretto la propria ex compagna a salire in macchina al fine di ottenere coattivamente un dialogo con la stessa. La donna aveva pertanto subito suo malgrado una conversazione indesiderata, rimanendo costretta a sopportarne la condotta nell’abitacolo dell’auto di lui.

Pertanto, denunciato il reato e svoltosi il processo di primo grado, era stata emessa la sentenza relativa,  con la quale i Giudici competenti pronunciavano la condanna dell’imputato per il reato di sequestro di persona ai danni della ex fidanzata e disponevano il relativo risarcimento del danno, da volgere in favore della parte civile costituita.

Tale giudizio è poi stato riesaminato in Appello, ove i Giudici  hanno riqualificato il reato come violenza privata e rideterminando perciò la pena comminata.

Ricorre in Cassazione tuttavia il Pubblico Ministero, deducendo la corretta qualificazione del reato come sequestro di persona e non come violenza privata.

Per lo stesso infatti, costringere una persona offesa a salire in macchina con violenza e minaccia comporta una limitazione della sua libertà di movimento. L’art. 605 c.p. che contempla il reato di sequestro punisce con la reclusione da sei mesi a otto anni “chiunque priva taluno della libertà personale.”

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La pronuncia della Cassazione

La Corte di Cassazione sez. Penale, con sentenza n. 2480/2021 dichiara il ricorso manifestamente inammissibile poiché manifestamente infondato in diritto. La tesi presentata dal PM tende a distinguere il reato di sequestro di persona da quello di violenza privata è che nel primo caso viene limitata la libertà di movimento, mentre nel secondo quella psichica della persona che subisce l’offesa.

Secondo la Corte tuttavia, è palese che quanto emerge circa la condotta tenuta dall’imputato, non sia una condotta atta a limitare o impedire la libertà di movimento della donna, né tantomeno sono messi in atto strumenti di aggressione o minacce a tal fine dallo stesso.

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La sua volontà è infatti diretta ad avere il tempo necessario per parlare con la donna. La conversazione tuttavia non è voluta dalla vittima, che per tanto è costretta a subire la condotta, che provoca pertanto in lei turbamento psicologico.

Pertanto per gli Ermellini, la condotta dell’uomo si configura proprio come reato di violenza privata contemplato dall’art. 610 c.p, che punisce con la reclusione fino a 4 anni “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa.”