Stalking: anche l’eccessivo vittimismo può contribuire alla configurazione del reato di stalking. La sentenza n. 31533/2021.
La sentenza
Una recente decisione dalla Cassazione pubblicata con la sentenza n. 31533/2021 riconosce come stalking, il tenere condotte persecutorie e minatorie ai danni della moglie e delle persone a lei vicine al solo fine di isolarla perché non si accetta che, dopo la separazione, la stessa si rifaccia una vita.
Con il pronunciamento appena richiamato infatti, la Suprema Corte condivide pienamente le conclusioni dei giudici di merito sia di prima istanza che in sede di impugnazione.
Gli stessi non si sonno soffermati sulle risultanze portate all’esame dell’imputato, che voleva che fossero riconosciute le condotte della ex moglie come denigratorie e lesive nella sua dignità in quanto le stesse fossero tenute in pubblico (magari nella cerchia delle persone con la quale l’ex marito intratteneva le proprie relazioni sociali).
L’atteggiamento di vittimismo ingiustificato in questo caso, avrebbe portato gli Ermellini a confermare la possessività dell’uomo e di non accettazione ed elaborazione del distacco della comunione con l’ex coniuge e il desiderio della stessa di rifarsi una vita senza di lui.
Il Tribunale prima e il giudice del gravame poi confermano la condanna dell’imputato per il reato di atti persecutori (stalking appunto), commesso ai danni dell’ex moglie.
Il reato di stalking
L’art. 612 bis c.p commina per tale reato la pena della reclusione di un anno fino a sei anni e sei mesi “Salvo che il fatto costituisca più grave reato (…) chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.”
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Il ricorso in Cassazione
Ricorre in Cassazione l’imputato per contestare di essere in realtà lui la vittima di condotte offensive e volte a ledere la sua dignità pubblicamente, in ambienti ove per altro lo stesso svolge la propria vita e coltiva le proprie relazioni,giustificando la sua costante presenza solo con lo svolgimento del diritto di visita ed accadimento della figlia per la quale i due condividono l’affido.
Viene inoltre contestatala mancata ammissione degli elementi di prova addotti dallo stesso che mostra l’atteggiamento della ex, ritratta in locali pubblici in atteggiamenti lesivi del suo onore e della sua immagine.
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La decisione della Corte di Cassazione
La Corte rigetta il ricorso contestandone in primis la genericità e perché non ha nulla a che fare con una lettura critica della sentenza di appello.
Sia per il giudice di prima istanza sia per quello della seconda, il marito non è una vittima, avrebbe altresì istaurato una condotta finalizzata inizialmente al controllo ossessivo di tutte le dinamiche che riguardano la donna dalla quale a tutti gli effetti si è separato, che si sono realizzate a tutti gli effetti come atti gravemente persecutori, che producevano al contempo uno stato permanente di ansia e paura nella vittima.
Quanto emerso dalle prove infatti, dalle prove sono emersi appostamenti, contatti anche con le persone vicine alla donna e finalizzate all’isolamento di quest’ultima, che nulla hanno a che fare, come affermato dall’uomo stesso, con la figlia e la sua gestione genitoriale, ma solo con la intrinseca volontà d’impedire alla moglie di rifarsi una vita con un atteggiamento di stalking costante nel tempo e che ha ingenerato un sentimento permanente di angoscia e paura nella stessa.
La tesi infine che la sua persona fosse offesa e lesa nella dignità dalle condotte della ex coniuge, che mostravano pubblicamente lo status “libero” della stessa, confermano inequivocabilmente la possessività dell’uomo nei confronti della donna.