Parto anonimo: La Cassazione con sentenza n. 15024/2016 è intervenuta per consentire al figlio, in alcuni casi specifici, di accedere alle informazioni che riguardano la madre
Si sente spesso parlare di parto anonimo, soprattutto quale alternativa all’aborto, il quale garantisce alla madre biologica l’anonimato per tutta la vita della partoriente. Ma, in alcuni casi, il figlio può accedere ad alcune informazioni, soprattutto di carattere medico e genetico, in quanto portatore di un diritto alla ricerca della propria identità-
Con la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e con la Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale è stato preso in considerazione il diritto di ciascuno di conoscere le proprie radici. L’impegno assunto in sede internazionale ha trovato attuazione con la modifica dell’art. 28 della l. n. 184 del 1983, ad opera dell’art. 24 della legge 28 marzo 2001, n. 149.
Nel nuovo testo, infatti, pur essendo conservato il divieto di ogni riferimento all’adozione nelle attestazioni dello stato civile, è stato consentito all’adottato di accedere seppur in presenza di specifiche condizioni, alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei genitori biologici.
Il nostro legislatore ha dapprima scelto di tutelare senza limitazioni il diritto all’anonimato della madre, in quanto veniva precluso a chiunque e, quindi, anche al figlio, di accedere alle informazioni riguardanti la propria origine, e stabilita, inoltre, l’impossibilità di chiedere il rilascio del certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, comprensivi dei dati personali della madre, se non trascorsi cento anni dalla formazione dello stesso documento.
L’art. 93, comma 3, («certificato di assistenza al parto»), del codice in materia di protezione dei dati personali,prevede infatti che, prima dei cento anni dalla formazione del documento (termine da cui l’accesso al testo integrale è consentito a chiunque vi abbia interesse), “la richiesta di accesso al certificato o alla cartella può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile”.
A oggi però, in tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, anche se il legislatore non ha ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali.
Con la sentenza della Corte di Cassazione n. 15024/2016, si è poi affermato che sussiste il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all’identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre, sul rilievo che ciò determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta, anche dopo la sua morte, e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la reversibilità del segreto e l’affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta.
Da ultimo, la Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 22497 del 09.08.2021 ha precisato che il diritto alla riservatezza va tenuto distinto da quello ad accedere alle informazioni sanitarie sulla salute della madre, al fine di accertare la sussistenza di eventuali malattie ereditarie trasmissibili, che può essere esercitato indipendentemente dalla volontà della donna e anche prima della sua morte, purché ne sia garantito l’anonimato, anche dunque nei confronti del figlio.