Mantenimento: per la Cassazione dopo i trent’anni il genitore non paga più

Mantenimento: La decisione della Cassazione 17183/20 che ha sbarrato a trenta anni il limite del figlio per percepire il mantenimento

Il mantenimento

Il diritto dei figli minorenni, quando i genitori si separano, ad essere mantenuti, discende dalla tutela che lo stesso impianto normativo vuole attuare, recependo pienamente il principio di “superiore interesse del minorenne”, che affonda le radici nella dichiarazione dei diritti del fanciullo riconosciuti dalla comunità internazionale nel lontano 1989.

Con il termine “mantenimento” quindi  intendiamo indicare i mezzi che il diritto prevede di mettere a disposizione del figlio in caso di separazione e divorzio dei genitori. Principalmente queste risorse sono di natura economica e i genitori debbono fornirle, non solo affinchè il figlio abbia il necessario per la propria vita in senso stretto (alimentarsi, vestirsi,abitare una casa), ma anche tutto ciò che può rendersi necessario per realizzarsi socialmente,  formarsi scolasticamente e autodeterminarsi nei propri progetti di vita e nel proprio sviluppo fino al raggiungimento dell’emancipazione.

In realtà il raggiungimento della maggior età non è tuttavia  sufficiente a far si che tale obbligo possa decadere da parte dei genitori, né tantomeno si può automaticamente smettere di versare il mantenimento, per propria decisione. L’art. 337-septies infatti, dispone il mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente e determina che il pagamento può essere eseguito direttamente in favore dell’avente diritto, pertanto per sospendere il pagamento occorrerà presentare sempre un ricorso per la modifica delle condizioni di mantenimento del figlio/i e attendere la decisione del giudice a riguardo.

Altrimenti occorre continuare ad ottemperare tale dovere di versamento, al più chiedendo che sia fatto direttamente nelle mani del maggiorenne. Allora quando si può legittimamente ricorrere affinché si possa richiedere la sospensione dell’ assegno di mantenimento?

Un tempo si parlava di “emancipazione” del figlio. Il termine, seppur superato, descrive la ratio che regge tale obbligo ovvero il raggiungimento di un’ autosufficienza, non solo economica ma anche sociale  culturale, ovvero l’ essersi autorealizzato, distaccarsi dal genitore perché ci si è compiuti come uomo/donna. Il problema insorge nella difficile determinazione di questa autosufficienza. Per anni abbiamo raccolto diverse interpretazioni giurisprudenziali sul tema, che potessero dare una direzione piuttosto che un’altra a livello interpretativo.

La svolta

La svolta in tal senso si è avuta la scorsa estate con una sentenza che è stata definita epocale della Corte di Cassazione l’Ordinanza 17183/2020, che delimita in maniera più concreta questo varco verso la propria indipendenza.

In sostanza il ricorso (che contestava la decisione in Corte d’Appello) sulla quale l’Ordinanza appena citata si pronuncia, era stato presentato dalla madre di un figlio di 33 anni con lei parzialmente convivente (per ragioni di lavoro erano soventi gli spostamenti) e in condizioni di lavoro precario(il figlio in questione è un professore di musica precario e trentenne che lavorava all’epoca saltuariamente come supplente, e aveva redditi di circa 20 mila euro l’anno).

Le circostanze sulla quale si intendeva ottenere giustizia, erano fondate sul fatto che il figlio maggiorenne, ma economicamente non autosufficiente, fosse a suo avviso nella condizione di continuare a tempo indeterminato a ricevere un contributo economico del genitore in precedenza obbligato a versare un assegno in suo favore oltre che a mantenere il godimento della casa familiare, in forza proprio della mancata stabilità lavorativa che la professione, scelta dal figlio stesso in forza del percorso formativo svolto, non garantisse stabilità duratura e continuativa sotto l’ aspetto economico e della realizzazione personale. La stessa Corte d’Appello aveva già fatto notare che ormai in ogni paese del mondo si dà per scontata l’indipendenza economica a trent’anni, tranne che in Italia. 

Non di diverso avviso sono stati gli “Ermellini”, evidenziando di fatto che è specifico dovere del figlio, in un età nella quale non si può di certo definire un ragazzo (da qui la soglia dei trenta che viene ricalcata), ridurre le proprie ambizioni fini a loro stesse, cercando un modo per mantenersi anche se non in linea con la professione da lui preferita o con quella da lui progettata negli anni, attraverso il percorso di studi e la formazione prevista per giungere alla posizione lavorativa aspirata.

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Finiti gli studi (siano quelli dell’obbligo o una laurea) un figlio ha il dovere di rendersi autonomo dai propri genitori e cercarsi un’occupazione qualunque essa sia, in grado di mantenerlo in quel momento. Insomma, con estremo realismo e somma pragmaticità, si dice che se i sogni non si realizzano, bisogna comunque correre ai ripari e rimboccarsi le maniche perché, dicono i giudici della Cassazione, un figlio non può pretendere «che a qualsiasi lavoro si adatti soltanto, in vece sua, il genitore» e le «ambizioni adolescenziali» devono ad un certo punto calarsi nella realtà ed essere quanto meno messe in sospensione.

Quindi, per la Cassazione, i genitori hanno l’obbligo  di mantenere il figlio finché non è autonomo, purché il figlio faccia di tutto per trovare lavoro dopo gli studi, che non devono protrarsi troppo a lungo, poiché a tal punto perderebbero finanche la propria “funzione educativa”, insomma vedendola quasi come una misura svilente.