Il licenziamento può dirsi “giusto” quanto viene meno la fiducia del datore di lavoro e nessun’altra sanzione è sufficiente a tutelarne gli interessi.

E’ indubbio che il licenziamento per giusta causa costituisce la più grave delle sanzioni applicabili al lavoratore e può considerarsi legittimo solo quando la mancanza di cui il dipendente si è reso responsabile rivesta una gravità tale che qualsiasi altra sanzione risulti insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro. L’irrogazione del licenziamento per giusta causa deve essere quindi sorretta da un rapporto di proporzionalità tra l’infrazione e la sanzione ai sensi dell’art. 2106 c.c., sindacabile soltanto dal giudice di merito.
Al riguardo, l’art. 2119 c.c. stabilisce che è ammessa la rescissione dal contratto di lavoro senza necessità di preavviso “qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro”, descrivendo, pertanto, gli effetti del fenomeno ma non il fenomeno in sé. In pratica, la norma citata racchiude un contenuto generico che deve essere specificato in sede interpretativa ed adeguato alla realtà, articolato e mutevole nel tempo. Dottrina e giurisprudenza hanno dunque cercato di specificare gli elementi integranti la giusta causa della massima sanzione espulsiva, individuando gli aspetti del comportamento del lavoratore idonei a menomare irrimediabilmente il rapporto fiduciario che deve continuamente sussistere tra le parti.
Quando il comportamento è sanzionabile?

Aspetti comportamentali che possono attenere tanto all’alveo contrattuale, consistenti in gravi inadempimenti degli obblighi lavorativi, ovvero a quello extra-contrattuale, quando in base alle funzioni del lavoratore è richiesto un ampio margine di affidabilità esteso anche alla serietà dei comportamenti privati dello stesso, in ogni caso idonei a compromettere la fiducia che il datore di lavoro ripone nel dipendente.
Elemento necessario, pertanto, per stabilire l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, è rilevare la sussistenza di una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, ma per accertarla in concreto occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta, al grado di affidamento che sia richiesto dalle mansioni espletate, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.
Il Giudizio di proporzionalità del Giudice

Il giudizio di proporzionalità, pertanto, deve essere volto ad accertare se i fatti ascritti al dipendente siano di una gravità tale da compromettere irrimediabilmente il necessario rapporto di fiducia.
L’irrogazione di una sanzione disciplinare massima può essere giustificata solamente quando ci si trovi in presenza di un notevole e gravissimo inadempimento contrattuale tale da non consentire, nemmeno in via provvisoria, la prosecuzione del rapporto di lavoro. Si legge, infatti, testualmente che “In base ad un consolidato e condiviso orientamento di questa Corte in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitalo e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini dei giudizio di proporzionalità, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.
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Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, ai grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed alla sua durata ed all’assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia (vedi per tutte: Cass. 22 marzo 2010 n. 6848),
Per la Cassazione affinché possa essere invocata la giusta causa di licenziamento deve, quindi, essere valutata la proporzionalità tra il fatto addebitato al lavoratore ed il recesso; per fare questo è necessario prendere in considerazione ogni comportamento che, per la propria gravità, sia suscettibile di scuotere e minare il rapporto di fiducia del datore (alla base di ogni rapporto di lavoro) e tale da far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali.