Se il tuo rapporto di lavoro cessa, per licenziamento o dimissioni, e non vieni pagato, è l’INPS che garantisce il pagamento delle ultime tre mensilità e del T.F.R.

Accade spesso che il rapporto di lavoro cessi, per licenziamento o dimissioni, ed il lavoratore non venga pagato, non venendogli corrisposto il TFR, le competenze finali (ferie, permessi non goduti, ratei tredicesima e quattordicesima) e le ultime mensilità magari rimaste indietro.
Ebbene, in questi casi, l’INPS garantisce il pagamento sia delle ultime tre mensilità, sia del TFR, sostituendosi dopo una procedura che può essere lunga o breve a seconda dei casi, ma che deve terminare rivolgendosi alla sezione fallimentare del Tribunale, depositando un’istanza di fallimento o insinuandosi in una procedura di fallimento proprio nei confronti dell’ex Datore di Lavoro.

Interessante è quanto assunto dalla Corte di Cassazione in merito con la sentenza che di seguito si riporta e che spiega ancor di più quanto sopra detto.
La Suprema Corte “…ha da tempo posto il principio secondo cui, in caso di insolvenza del datore di lavoro, il lavoratore assicurato che pretenda il pagamento del TFR da parte del Fondo di garanzia istituito presso l’INPS, ai sensi della L. n. 297 del 1982, art. 2 ha l’onere di dimostrare che è stata emessa la sentenza dichiarativa del fallimento e che il suo credito è stato ammesso nello stato passivo, ovvero, qualora l’ammissione del credito nello stato passivo sia stata resa impossibile dalla chiusura della procedura per insufficienza dell’attivo intervenuta dopo la proposizione, da parte sua, della domanda di insinuazione, ma prima dell’udienza fissata per l’esame della domanda suddetta, di procedere preventivamente ad esecuzione forzata nei confronti del datore di lavoro tornato in bonis a seguito della chiusura del fallimento, L. n. 297 del 1982, ex art. 2, comma 5, cit. (Cass. nn. 11945 e 13305 del 2007).
I suesposti principi sono stati ribaditi anche nell’ipotesi in cui l’esame della domanda (tardiva) di insinuazione sia stata impedita dalla previa chiusura del fallimento per insufficienza di attivo (Cass. n. 7877 del 2015) e poggiano sull’esame complessivo della disposizione di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2 da cui emerge chiaramente che il legislatore ha ancorato l’intervento del Fondo alla ricorrenza di due distinte ed alternative ipotesi: da un lato, la verifica del credito del lavoratore mediante l’insinuazione al passivo del fallimento del datore di lavoro (art. 2, commi 2 ss.); dall’altro lato, qualora il datore di lavoro non sia soggetto alle disposizioni della legge fallimentare, il previo esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito, da cui risulta l’insufficienza, totale o parziale, delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro stesso (art. 2, comma 5).
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Così ricostruito il sistema, del tutto correttamente la Corte di merito ha ritenuto che la previsione della L. n. 297 del 1982, art. 2, comma 5, dovesse trovare applicazione anche nel caso di specie, in cui il giudice fallimentare, essendo emerso che non poteva essere acquisito attivo alcuno da distribuire ai creditori, ha disposto con decreto la chiusura del fallimento del datore di lavoro dell’odierno ricorrente prima ancora dell’udienza fissata per l’esame dello stato passivo: è sufficiente al riguardo rilevare che, comportando la chiusura del fallimento il ritorno del datore di lavoro in bonis, ben poteva l’odierno ricorrente procurarsi un titolo esecutivo e promuovere la conseguente azione esecutiva nei confronti della società, ovvero, a seguito della sua cancellazione, nei confronti dei soci, i quali avrebbero risposto dei debiti sociali nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione (così Cass. S.U. n. 6070 del 2013)”.